Sezione I – I primi movimenti del cuore

L’escluso

Ti cercavo al mio fianco ma tu non c’eri.
C’erano solo i pali del telefono
che annunciavano l’arrivo del primo freddo
e che nella loro multiforme persistenza
composero la piú terribile delle rivelazioni:
non ero quello che cercavi perché fumavo.
Forse, mi dissi, avevi pensato a lui
mentre io vomitavo uova sode in campeggio.
Lui che prima di me non aveva fumato.
Ma non potevo prometterti di smettere,
né ti mentivo quando saggiavo la tua estensione
nella mia angoscia terrificante.

Giuravi su quelle persone splendide
con cui eri stata prima di me
che a loro pensavi come si pensa
a un vecchio film muto.
Per rassicurarmi aggiungesti
che mi avresti dormito addosso
come mi dormiva la stanza
e che sarei durato piú di una stagione.
Fu però in quell’occasione che comparve
per la prima volta il suo nome
nella nostra corrispondenza.
Dicevi che tra voi andava meglio
e io mi chiedevo se sarei diventato alla fine
almeno una colonna sonora piena di malinconia.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

Posto di blocco

Da quanto tempo stavamo insieme?
Non ricordo quanto fossimo vicini
al Natale,
ma venni a prenderti lo stesso.
I tuoi nuovi orecchini riflettevano sul finestrino
il bagliore cieco della predestinazione
e allora non potevo sapere che eri un drago bicefalo.
Mi massaggiavi i capelli con la mano
che si apriva e chiudeva pulsando come un cuore.
Io guidavo con l’indice della sinistra
tra le labbra, un passaggio a livello
perennemente chiuso.
Aspettavo, aspettavo. Aspettavo che tu vuotassi il sacco,
che mi dicessi che niente era vero,
che la mia vita non era cambiata di una virgola.
Però te ne stavi lí torre pendente
che sferzava il tempo degli immobili,
un Platone che si è amato troppo a lungo.

La spia arancione della benzina fece scattare l’allarme
e mi costrinse a chiederti quale scorciatoia
fosse piú lunga della tua sciarpa.
Alla stazione di servizio vicino casa tua
c’era un polacco congiurato dai cani,
che dava loro ordine di riposo nella lingua della palude.
Si avvicinò alla macchina come un gigante di marmo
e accettando i soldi che gli davo per essere riconosciuto
cominciò a pulire il parabrezza.
Su e giú a colpi di spugna
cercava di farmi aprire gli occhi,
di mostrarmi il tuo vero volto.
Io, però, andai via, credendo che per quello
fosse troppo presto.

Dopo duecento metri ci fermarono ad un posto di blocco.
“Buonasera. La signora qui di fianco è sua moglie?
No, perché sa, dalla foto sulla patente
lei sembra un altro
e le sue cicatrici non sono cosí evidenti”.
Tu mi guardasti e mi sorridesti.
Subito dopo, ripresa la marcia,
aggiungesti che ti sarebbe piaciuto
essere una di quelle cicatrici.
La piú grande, la piú bella, la piú perfetta,
quella che l’impiegato del comune
annota come segno particolare
sulla carta d’identità.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

Febbre

In quei primi mesi passammo lontani
al massimo una o due settimane.
Avevi la febbre e una tosse terribile.
In una mail mi spiegasti che non potevamo vederci
perché qualche volta
uno dei colpi che ti riusciva piú forte
ti spalancava la bocca
e la linea che separava la lingua dalla gola
si srotolava come un orizzonte.
Sputavi fuori un vascello di mosche
e temevi che mi avrebbero fatto del male.

Dopo aver spento il computer
strinsi la fiamma della candela tra due dita.
Stavolta però rimase il segno sui polpastrelli.
Mi accarezzava l’idea di riempire una scarpa
con tutte le mie inutili priorità
e di lasciarla fuori sul balcone
ad inzupparsi nella pioggia.

Quello che avrei voluto fare
era semplicemente prendermi cura di te.
Accudirti nel delirio dei tuoi incubi
e scortarti fin dove il tuo corpo
s’imprimeva come la forma piú semplice
nei contorni del tuo disegno giapponese.
Da Oriente l’alba comincia prima
e la luce ha piú tempo per sbirciare nelle tombe.

Dopo giorni di insistenza cedesti
a quello che credevo un mio desiderio.
Mi accordasti udienza al portone del tuo palazzo.
Quando spuntai dall’oscurità
un aeroplano si schiantò sulle nostre teste
sottoponendoci al futuro del silenzio che segue il tuono
senza che potessimo riconoscere il fulmine.
Per questo non riuscivi a respirare, e per calmarti
ti massaggiai le tempie coi pollici
come si fa ai bambini che non riescono a dormire.

A giudicare dal sonno eterno in cui piombasti
ti avevo somministrato la migliore medicina.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

La colazione

In risposta alla tua
macchina da guerra
ti feci arrivare la colazione
a casa
e tuo padre furibondo
disse che era avvelenata
forse perché già sapeva
che il veleno ce l’avresti messo tu.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

Sofia

La tua purezza francescana dei primi mesi
ci convinse che la bellezza del creato non dipendeva dalla volontà –
e meno che mai dalla volontà di qualcuno.
Avevi appena detto a tua madre
di aver trovato l’uomo della tua vita.

Cosí tra l’ottobre e il novembre di quel primo anno
ci dedicammo alla redazione del nostro testamento –
con quello che c’era in gioco
bisognava essere molto prudenti.
Stabilisti che avremmo avuto una figlia
che avrebbe sperimentato sulla propria pelle
la tua trascendenza meticolosa
e decidesti che quella bambina di nome Sofia
avrebbe ereditato il tuo dolcissimo nasino
ad esclamare qualcosa tra i miei occhi.
Mi chiedesti di averne cura
prima che la vita ci smentisse
nel suo turpe disegno di devastazione.

Dopo quelli che credo fossero due mesi
dicesti di amarmi come non avevi amato nessuno.
Fui terrorizzato al punto da non riuscire piú a distinguere
la differenza che corre tra il giorno e la notte.
Si saldò tutto nello stupore inderogabile
di uno scudiero che in pochi secondi divenne cavaliere.
Tra le palle di cannone e le frecce del nemico,
sul campo di battaglia,
continuavo a implorarti di non lasciarmi sotto il tiro
delle parole che non hanno tempo.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

Io sono un miracolo

Piantato sotto il cielo ancora caldo d’inizio ottobre
stavo come un altissimo palo teso verso l’imponderabile.
Ero il fiore destinato alla permutazione,
e tu mettevi le mani dappertutto nella camicia sbottonata
di due bottoni, sul petto – miravi a ciò che non ricresce.
Mi baciavi, e a loro mostrasti l’intesa che preparavi cosí meticolosamente
dai primi aneddoti del grafo macrologico.
Andammo in macchina con Renato e la scheggia di coccio
che mi squarciò il dito scagliò la sua cicatrice
verso l’osso, verso il corpo duro in cui il dolore
ha maggiore consistenza.

Per tutto il tempo del viaggio sul sedile posteriore
mi raccontasti a bassa voce del tuo futuro.
“Avrò un metodo tutto mio – dicevi – e i miei alunni
dovranno imparare che io sono un miracolo”.
Te lo dissi, mi sembrava una cosa plausibile,
niente a cui opporre assiologie, teorie dei valori.
“Nietzscheanamente parlando” – aggiunsi – “il valore è questione
di forza, laddove il buono impone al debole la sua legge
e la carità è soltanto la vita di cui è fatta grazia
in battaglia per la pietà e la supremazia del cavaliere.
Dunque se sei al di là del bene e del male
seguimi a fondo e paga la pigione per la plancia
e i mille altri voli con cui perlustri la sopraffazione”.
Fino a che Renato non ci disse che era ora di scendere,
io con gli occhi chiusi vedevo l’indivisibile.

Al tavolo di una pizzeria che inaspettatamente ti avrebbe telefonato
tre anni dopo nel lucernario della separazione,
mi stringevi al tuo calcolo che allora
non prevedeva posteriorità.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

Il terzo occhio

La vecchia reggia della ferrovia
aveva binari di granito incandescente.
Fummo catapultati sul selciato estivo
delle nostre prefiguranti intemperanze
dalla terra che nel suo nucleo piú profondo
combaciava con la suola delle nostre scarpe.
Qualcuno, da laggiú, ci sentí entrare
in punta di piedi.

Suonava di nuovo la tua amica Daniela.
Tu volevi che nessuno sapesse di noi
e per tenermi la mano mi dissimulavi
nell’ombra di una colonna.
Quando mi stancavo di essere quell’ombra
mi rifugiavo in un’altra oscurità inespugnabile
cercando i grandi occhi del lemure che mi accarezzava la coda
con l’indice sporco di fango.
Quando ti accorgesti della sua presenza
gli feci segno di andare via col capo.
Mi guardò con la notte attorno agli occhi
e mi disse che da quel momento in poi
avrei dovuto fortificare lo sguardo della mente.

Durante la pausa del concerto ce ne andammo fuori
e io mi aggrappai a te come ci si aggrappa a un destino.
Ti lasciai scandire con chiarezza quel richiamo
e ti permisi di penetrare le mie difese per scavarmi le orbite
ripulendomi da ogni immagine che ti aveva preceduto.
Andasti talmente a fondo che non mi sembrò
di avere mai avuto un passato.
Ci sedemmo sulla panchina ben nascosti al palazzo
e ti stringesti a me
con la forza inalterabile che ti avrebbe contraddistinto
nei tre anni successivi.
A stento riuscisti a slacciare la gamba dalla mia
quando mi sussurrasti che saremmo dovuti rientrare.
Fu la piú grande premonizione che potessi offrirmi.

Non so quanto gli altri credettero alla nostra recita,
ma a giudicare da come mi guardava Daniela
direi che l’applauso finale era già garantito.
In quella farsa le piacevo per ciò che non ero.
Cercava di difendermi come meglio poteva
da chi in quel chiostro si accingeva a murarmi vivo.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

La tana della volpe

Ti invitai a casa sua per segnare il territorio.
Perimetravo l’imperimetrabile odassismo che distorceva
gli odori e per primo cronologicamente spalancava
le porte della notte.
Lasciai che quella casa diventasse il ricordo
di un’applicazione festiva del calendario dell’occultabile,
in segreto, ma non troppo, preso come ero a pervertire
il denutrito ordine degli eventi, indeglutibile.
Noi leggevamo nello studio di un grecista defunto
gli olmi, le penne che come esercizio omerico riscaldavamo
cingendo la tazza di tè che sua madre
ci aveva preparato abolendo il merlo della cucina.
Tu e Miranda invece nel soggiorno ripetevate
ad alta voce scandendo bene tutte le parole
la maledizione di Spinoza il molatore ebreo,
e camminaste sopra i tuoi quaderni riscrivendoli
ad ogni inesattezza, per ogni errore commutandoli
nella riscrittura.
Io intanto gli chiedevo se venire da te, se in quilio
fosse il caso di smascherarmi appena un poco
e permetterti di legarmi al filo dello stenditoio
con una molletta e in bocca il cane
che era a malapena tornato dallo spazio.
Nella cesta dei panni, comunque,
avresti sicuramente riconosciuto l’autocitazione.
“La tua bocca è della specie dei coralli:
è colorata ed è una barriera”.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

La vergine della pagoda

Ti guardai per tutto il tempo dallo specchietto:
indossavi la maschera della morte che non riconobbi.
Proveniva dal mare dei gamberi a cui ti avrei introdotto
e in cui ti saresti tuffata piangendo senza motivo.
Mi avresti messo da parte come un vecchio mangianastri
in una scatola di libri degli anni ’80,
dicendo che per queste cose non c’è spiegazione.
Ma nonostante tutto, nonostante il play inceppato,
io continuai a guardarti da quello specchietto.

Usciti dall’autostrada ci fermammo ad aspettare la vita.
Io scesi dalla macchina e tu mi seguisti.
Sebbene fumassi, mi rimanesti accanto
mentre io stavo cominciando ad assimilare
senza rendermene conto tutte le tue fobie.
All’epoca mi estendevo attraverso di esse
unificandole nel tuo terrore piú grande:
la paura che non ti amassi tanto quanto il tuo amore
mi obbligava già a corrispondergli.

Parlammo forse per un altro quarto d’ora.
Fummo interrotti dalla sirena
che annunciava i bombardamenti
e tornammo in macchina con i miei nonni
a mangiare polvere di patate e piselli.
Avrei voluto tenerti stretta la mano
per dirti che sarebbe andato tutto bene
ma la corrente elettrica diventò una candela
e la cantina un cumulo di macerie a cui non sopravvissi.

Alessandra ci fece cenno di seguirla.
Prima di casa sua la strada era divisa
in un unico grande canale dalle fiamme.
Ci leccava con le sue molteplici lingue
non accennando minimamente alla pacificazione universale.
Parcheggiammo che eravamo bagnati fradici
e nessuno ci seppe spiegare
il contatto della pagoda.
Nessuno mi seppe spiegare perché un orso dal pelo bruno
ti rapí e tu lo divorasti davanti ai miei occhi
tagliandogli per prima cosa la gola
col pugnale di Kali la nera.
Dicesti a quell’orso che se non l’avessi ucciso tu
il tempo si sarebbe dovuto sporcare le mani.
“Kammamuri, guarda, guarda come ho lavato
l’onta della sua nascita nella redenzione
di ogni possibile infinito.
Agli esseri umani tocca comprendere
che la speranza non è cosa mortale”.
Poi fuggisti, commiserandoti per quanto avevi fatto.

Mi sedei con l’iperuraneo che mi seduceva.
Pur apprezzando particolarmente i politeismi
mi votai ad un culto che prevedeva
tra miliardi un’unica stella fissa.
Ne discussi con lui mentre mi fingevo astemio.
Non gli piantai quel chiodo in mezzo agli occhi perché catturasti
la mia attenzione invitandomi ad andare fuori.

In mezzo a tutti quei fiori mi stavi offrendo
una riserva di dolore lunga come una vita dopo la morte.

Sezione I – I primi movimenti del cuore

Il primo appuntamento

Mi dicesti: “Devi andare alla prima a sinistra
subito dopo il mio amico d’infanzia,
ché se non fai in tempo io sposo lui”.
Avevi stabilito come limite
i venticinque anni.
C’erano quindi ancora quattro anni di tempo.
Per parte mia, non contento di avere
un unico rivale, mi trascinai dietro anche lui.

Ti trovai che mi aspettavi nei pressi della statua
vicino casa tua e in un primo momento
non seppi distinguerti dai lampioni.
Nel dubbio sorrisi a tutto ciò che vedevo.
Ti sedesti dietro lasciando noi poco piú avanti,
forse per valutare con distacco
il tuo intero futuro ancora inedito
ma che avevi lí a portata di mano
in tutte le sue diramazioni.
Ti sarebbe bastato poi allungare un solo dito
per esaudire il pulsante dell’autodistruzione.

Dove suonava la tua amica Daniela
non c’era molto spazio per parcheggiare:
ci sedemmo alla sinistra del palco.
Quel settembre stranamente già freddo
non riuscí ad imbrigliare il suono dell’arpa
e le parole che ci affibbiarono
si confusero nel movimento delle palme.
Per dimostrare il mio distacco m’impegnai
inoltre nell’allontanarmi di tanto in tanto,
tentando di scegliere sempre il momento giusto,
ma ogni occasione si rivelava sbagliata.
Ad ogni sbaglio si ripeteva inesorabile
in quella grande piazza
la scena di un mio sembiante che ti fissava
e che per trattenerti al suo fianco
non ti ha mai riaccompagnato a casa.