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Sezione I – I primi movimenti del cuore

La vergine della pagoda

Ti guardai per tutto il tempo dallo specchietto:
indossavi la maschera della morte che non riconobbi.
Proveniva dal mare dei gamberi a cui ti avrei introdotto
e in cui ti saresti tuffata piangendo senza motivo.
Mi avresti messo da parte come un vecchio mangianastri
in una scatola di libri degli anni ’80,
dicendo che per queste cose non c’è spiegazione.
Ma nonostante tutto, nonostante il play inceppato,
io continuai a guardarti da quello specchietto.

Usciti dall’autostrada ci fermammo ad aspettare la vita.
Io scesi dalla macchina e tu mi seguisti.
Sebbene fumassi, mi rimanesti accanto
mentre io stavo cominciando ad assimilare
senza rendermene conto tutte le tue fobie.
All’epoca mi estendevo attraverso di esse
unificandole nel tuo terrore piú grande:
la paura che non ti amassi tanto quanto il tuo amore
mi obbligava già a corrispondergli.

Parlammo forse per un altro quarto d’ora.
Fummo interrotti dalla sirena
che annunciava i bombardamenti
e tornammo in macchina con i miei nonni
a mangiare polvere di patate e piselli.
Avrei voluto tenerti stretta la mano
per dirti che sarebbe andato tutto bene
ma la corrente elettrica diventò una candela
e la cantina un cumulo di macerie a cui non sopravvissi.

Alessandra ci fece cenno di seguirla.
Prima di casa sua la strada era divisa
in un unico grande canale dalle fiamme.
Ci leccava con le sue molteplici lingue
non accennando minimamente alla pacificazione universale.
Parcheggiammo che eravamo bagnati fradici
e nessuno ci seppe spiegare
il contatto della pagoda.
Nessuno mi seppe spiegare perché un orso dal pelo bruno
ti rapí e tu lo divorasti davanti ai miei occhi
tagliandogli per prima cosa la gola
col pugnale di Kali la nera.
Dicesti a quell’orso che se non l’avessi ucciso tu
il tempo si sarebbe dovuto sporcare le mani.
“Kammamuri, guarda, guarda come ho lavato
l’onta della sua nascita nella redenzione
di ogni possibile infinito.
Agli esseri umani tocca comprendere
che la speranza non è cosa mortale”.
Poi fuggisti, commiserandoti per quanto avevi fatto.

Mi sedei con l’iperuraneo che mi seduceva.
Pur apprezzando particolarmente i politeismi
mi votai ad un culto che prevedeva
tra miliardi un’unica stella fissa.
Ne discussi con lui mentre mi fingevo astemio.
Non gli piantai quel chiodo in mezzo agli occhi perché catturasti
la mia attenzione invitandomi ad andare fuori.

In mezzo a tutti quei fiori mi stavi offrendo
una riserva di dolore lunga come una vita dopo la morte.