A mo’ di introduzione

Quanto seguirà è frutto della costrizione: la vita degli uomini, il suo derubricarsi come un insieme sensato di eventi, ovverosia una biografia, è in realtà ascrivibile soltanto alle circostanze ed alla loro forza sovversiva. In questo senso, l’uomo non ha certo potere su ciò che gli accade, e questo sembrerebbe invero abbastanza incontestabile.
La vita dopo la morte non è un blog, e non ha mai voluto esserlo, nel senso che non è stato concepito per essere tale: inizialmente, si trattava di un dialogo con l’aldilà, ed è probabile che non avesse nemmeno raggiunto, nella mia testa, la forma di una futura destinazione pubblica. Tuttavia, avendo praticato l’esercizio poetico anche prima di questo esperimento, questo dialogo ha assunto naturalmente la forma di un poema epico, cioè qualcosa che va ben oltre la materia biografica ed il vissuto reale in quanto tale, di cui pure si nutre: cosí, innanzitutto, La vita dopo la morte è diventato un libro. Questo con tutto quello che può comportare una cosa del genere – per esempio che nel significato dell’opera sottentri la potenza della finzione, quantunque questa sia a pieno titolo una forza vitale.
Ad oggi, tuttavia, l’editoria non è molto clemente con le opere di poesia, ovemai lo fosse stata in passato. La poesia non si compra, si legge pochissimo, quasi nulla, si studia altrettanto poco, i concorsi letterari sono consessi di esseri ripugnanti – per quanto sia comprensibile il loro atteggiamento – che cercano di sfilare un piccolo gruzzoletto da gente affamata di riconoscimento, culturale, sociale o non so che altro. Volendo comunque badare all’indispensabile, basti pensare a cosa fanno le case editrici in genere con la poesia: se devo far uscire il tuo libro, si tratta di un investimento a perdere, perché appunto nessuno legge, nessuno compra, e allora se vuoi pubblicare devi pagare. Col che diventa pubblicabile chi ha maggiore possibilità di spesa, chi può permettersi di rifondere duemila o tremila euro di tasca propria per vedere il proprio nome su un parallelepipedo cartaceo: per questo il poeta contemporaneo tende a sovrapporsi alla figura di un assessore di qualsiasi rango, cioè di una persona che ha un po’ di tempo libero per scrivere qualche verso e giustappunto la disponibilità di comprarsi una pubblicazione come acquisterebbe un nuovo plasma per il salotto.
Anche La vita dopo la morte si è scontrata con queste coordinate, e dopo piú di un anno dalla chiusura dell’ultima versione del testo, l’occhio dell’autore sta rasentando la flebile soglia della devastazione. Nella prefazione alla sua raccolta di racconti A Slow Learner, Pynchon descrive molto bene questa furia nei confronti della propria opera, questa volontà di cancellazione e rinnegamento, che inevitabilmente, ad un certo punto, attraversa la mente di colui che scrive – ma in generale di colui che agisce rispetto all’agito –; si tratta di qualcosa che ho sperimentato in ogni sua piega, e che però, in un’età quantomeno parzialmente piú matura, non può somministrarsi con lo stesso furore. Cosí prima che l’inevitabile accada, mi spendo per una diffusione piú gratuita e democratica, che salvi quanto, allo stato attuale, è ancora possibile salvare.
È importante tenere presente che La vita dopo la morte sia un libro, ossia non una silloge: il libro è epico perché racconta la storia di un eroe che lotta contro l’ingiustizia del fato e che prova a prendere posizione nel cosmo, al limite anche di un fallimento, quale esito possibile della ricerca. Il prius è dunque la storia, quantunque essa assuma spesso la forma di un dialogo fra un io ed un tu, e sebbene sia proprio forse la parte dialogica quella ad essere per me, dal punto di vista personale, piú pressante e sinistra, prufockianamente overwhelming, ciò che mi spinge, infine, dopo anni, a liberarmi di tutto questo.
I vari testi che compongono il poema sono stati scritti lungo l’arco di due anni, fatta eccezione per qualche verso interpolato qua e là, ripreso da vecchi quaderni, e dalla prima poesia, che è invece ormai vecchia di circa sei anni. La sua ingenuità ributtante mi potrà dunque essere concessa in dono dai presunti lettori.
Il blog cesserà di essere aggiornato quando il libro sarà giunto al termine. In ultimo, vale la pena di ricordare che il libro è scritto nella materia sanguinolenta di Enrico Gnei.

In fede,

E. G.

Una risposta a “A mo’ di introduzione

  1. Gapemotivo 17 luglio 2013 alle 5:16 PM

    Ho letto, ma ti consiglio una forma più fluida, c’è una rigidità in dei tratti.

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